L’occupazione del bosco di via Curtatone a Gallarate è stata un terreno di sperimentazione di un modo di organizzarsi che non è riconducibile a un gioco tra aree e strutture, che è meno militante, è spurio, eppure potente. Vogliamo raccontare dell’esperienza del bosco, perché se è vero che l’abitudine ad organizzarsi in questo modo è andata persa dalle nostre parti, potrebbe dare forza e respiro a quelle che vengono etichettate soltanto come lotte ecologiste o locali. Di questi eventi singolari è necessario costruire una visione più profonda e ampia: unire i punti per tracciare una linea di fuga.
1. Come è cominciato tutto
Un salto nel vuoto. Quello di via Curtatone era un giovane bosco di due ettari, in un quartiere popolare di Gallarate, stretto tra una strada, l’autostrada e la ferrovia, nato da un progetto di piantumazione delle scuole elementari qualche decennio fa e poi lasciato a se stesso. Quando è stato annunciato il progetto per costruire un nuovo polo scolastico nell’area del bosco con i fondi del PNRR, il comitato Salviamo gli alberi di Gallarate si è subito mobilitato, creando un presidio diurno davanti al futuro cantiere: il progetto non solo prevedeva di radere al suolo l’ennesima zona boschiva in un territorio già ferocemente cementificato, ma comportava anche la chiusura delle quattro scuole di quartiere.
Il 5 agosto 2024 gli operai arrivano al cantiere con la polizia locale e tagliano i primi alberi, ma basta la presenza di alcune persone all’interno del bosco per fermare i lavori. Di fronte a un nuovo tentativo di taglio, il presidio sfonda in massa le reti ed entra nel cantiere, interrompendo un’altra volta i lavori. Da quel momento, alcune persone salgono sugli alberi per difendere il bosco: il comune e l’azienda mettono di fatto in pausa i lavori – per due mesi nessun albero sarà tagliato –, sebbene il bosco sia fin dal primo momento sotto sgombero. Sono giornate caotiche e spontanee: tutto è ancora da immaginare.
2. L’occupazione del bosco e le prime costruzioni
Chi partecipa alle prime giornate si rende conto che è necessario abitare il bosco per poterlo difendere e pensare piattaforme adeguate per resistere sugli alberi.
Comincia allora un intenso periodo di costruzione, entusiasta e disordinato. Sebbene sia un’ottima palestra e un momento prezioso di trasmissione di saperi, la mancanza di una strategia chiara fa sentire i suoi limiti alla prima incursione della Digos che, con l’appoggio degli operai comunali, sottrae i materiali da costruzione e porta via quello che trova nel bosco. Tutto ciò che si trova sulle piattaforme già costruite in altezza non viene toccato. Diventa allora chiaro che le costruzioni vanno ripensate in senso difensivo (quel che di prezioso abbiamo viene stipato sulle piattaforme, costruiamo una cucina che si può sospendere con un sistema di carrucole, barrichiamo l’entrata al cantiere) e vanno adattate alle modalità di resistenza che ciascuno intende praticare.
Le capacità tecniche di arrampicata sugli alberi e di costruzione ci assicurano la fiducia della maggior parte del presidio, e anche una profonda comprensione della necessità di tutelarsi dalla repressione: avere una maglietta a coprire il volto e fare attenzione all’utilizzo degli smartphone non sono più gesti che suscitano timore, ma diventano pratiche condivise. Ci facciamo persino rimproverare dalla signora A. perché la chiamiamo in chiaro. D’altronde la repressione è forte fin dalla prima incursione: è evidente che il prefetto e il comune temono la composizione variegata del presidio, che non assicura loro un controllo facile della situazione (“Non sappiamo con chi parlare”, lamenta spesso la Digos davanti al bosco), ma anche le costruzioni sugli alberi, perché i mezzi tecnici per fare fronte a una resistenza a dieci metri dal suolo non sono a loro immediata disposizione. Lo sguardo di tanti membri del presidio sulla polizia sta cambiando.
3. Vivere il bosco: sfuggire alla quotidianità, anche quella della militanza
La composizione variopinta del presidio e dell’occupazione ha permesso incontri inaspettati, curiosi e toccanti. Al lungo tavolo del glorioso pranzo nel bosco organizzato dai Sollevamenti della terra in visita da Bologna, chiacchieravano amabilmente un ciclista esperto dei tesori d’arte di Gallarate e un festaiolo abruzzese. Il sostegno a chi viveva nel bosco è stato determinante: tante persone hanno aperto le loro case, portato montagne di cibo cucinato con cura al bosco, rimediato cerate, torce, e tutto quello che poteva servire all’occupazione. Chi non saliva sugli alberi, dopo la prima incursione della Digos, ha cominciato a vegliare davanti al cantiere per tutta la notte. Ognuno aveva la sua routine casa-lavoro e/o militanza-mangiare-dormire, e per stare nel bosco ha dovuto interromperla. In fondo, come ha detto la signora G, “meglio stare tutta la notte davanti al cantiere con un fischietto in mano che tornare a casa da mio marito a guardare la tv”.
Il confronto tra persone con esperienze diverse è prezioso: obbliga a porsi domande alle quali spesso pensiamo di conoscere già la risposta. Perché fate assemblea in questo modo? Già, perché lo facciamo? Lo sforzo di traduzione ci ha dato uno sguardo più riflessivo sui nostri automatismi. Forse è anche per questo che abbiamo avanzato a tentoni, ci siamo mossi senza schemi predefiniti, cercando di pensare di volta in volta in modo strategico. Il bosco ci ha messo davanti a un imprevisto: se quando occupiamo uno squat in città ci chiediamo subito “è uno spazio abitativo o politico?” e a volte finiamo per vederlo come un contenitore, in un bosco non è così semplice. Forse perché è difficile abitarlo, non ha una funzione definita, dobbiamo immaginare l’uso che vogliamo farne, lo sentiamo già come politico. È stato il bosco stesso a impedirci di concepirlo come un luogo da farcire di eventi. Ed è questo che ha scardinato la dinamica ben nota tra esperti organizzatori e fruitori di un’esperienza, e ha revocato in causa l’idea di una natura come spazio vuoto da riempire.
4. Difendere il bosco/attaccare il cantiere
Il terreno amico e la composizione variegata del presidio ci hanno dato un’agibilità politica che spesso ci manca: questo ci ha reso possibile non solo difendere gli alberi per un paio di mesi, ma soprattutto attaccare il cantiere. E c’è davvero bisogno di spiegare perché è vitale attaccare un cantiere? In modo sempre più evidente e sfacciato, ciò che rende ancora vivibile questo mondo – e non è molto – viene sistematicamente rimpiazzato da opere sproporzionate e dissonanti. A Gallarate il progetto prevedeva di distruggere gli ultimi alberi che proteggevano il quartiere dal caldo e dal rumore assordante dell’autostrada, per rimpiazzarlo con una colata di cemento e stipare dentro al polo scolastico i bambini da ogni parte della città.
Al bosco di via Curtatone abbiamo sperimentato la pratica della resistenza sugli alberi, poco conosciuta dalle nostre parti, ma già utilizzata al Don Bosco a Bologna. Questo metodo da solo è debole, come ha confermato il momento dello sgombero, che è stato molto più rapido di quanto avessimo immaginato. La presenza sugli alberi deve essere accompagnata, sia fuori che dentro al bosco, da altre forme di resistenza a terra più determinate e flessibili (che erano peraltro già state messe in pratica con successo, per fermare le incursioni della Digos), perché, se la resistenza sugli alberi ci ha dato tempo (sono dovute arrivare squadre specializzate da altre province), la polizia durante lo sgombero non ha rispettato alcuna norma di sicurezza, come era d’altronde prevedibile. Forse l’eccessiva fiducia nelle norme e nelle leggi rimane il più grave problema delle lotte ecologiste, non solo quando il ricorso giuridico diventa l’unico orizzonte strategico, ma soprattutto quando si riflette su un’operazione di polizia. La sensazione di essere dalla parte giusta della storia non deve trarci in inganno sul mondo nel quale viviamo. La prossima volta non dovremo farci illusioni, e potremo costruire sapendo che le scale che abbiamo fabbricato saranno utilizzate contro di noi; che anche gli alberi legati tra loro verranno abbattuti, spesso sulle traverse collegate alle piattaforme; che l’abbattimento potrà avvenire mentre le persone resistono ancora sugli alberi; che la polizia raggiungerà con metodi artigianali le piattaforme più basse. Per quelle più alte e più difficili da raggiungere a causa della conformazione dell’albero, è stato invece necessario l’intervento dei pompieri.
5. Disattivare l’ecologia
Non vogliamo pensare il problema dell’abitabilità del mondo nei termini e secondo i concetti che ci sono proposti dall’ecologia, che sono sempre totalizzanti e individualizzanti allo stesso tempo. Nella concezione di un ambiente separato dall’essere umano, si crea un soggetto da attivare per difendere una natura che è un oggetto a lui esterno. Al centro c’è sempre la gestione, che sia di uno spazio sacro intoccabile o di un fondo da sfruttare, come le due facce di una stessa medaglia. Le lotte ecologiste, insomma, non fanno altro che accompagnare la ricomposizione del capitale in salsa verde, perché continuano a ragionare nei termini estrattivisti della migliore gestione possibile delle risorse. Peraltro la maggior parte degli ecologisti si ostina a delegare ai governi la gestione della crisi climatica, sbandierata come ragione ultima dell’inevitabile “transizione” energetica. Perché allora l’ecologia ha cosi presa oggi? Noi crediamo, e ne abbiamo fatto l’esperienza al bosco di Gallarate, che dietro l’etichetta dell’ecologia si muovano desideri molto più profondi, di una forma di vivere differente, di un contatto anche solo frammentario col selvatico, di una porta d’uscita dai meccanismi del capitale. Disattivare l’ecologia e mettere in discussione l’attivismo – la centralità della questione mediatica e la messa in scena della lotta nel tentativo di coscientizzare le masse che porta con sé –, è fondamentale in un momento in cui ci troviamo a combattere progetti sempre più assurdi e grotteschi.
6. Come proseguire
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha fatto piovere sull’Europa una montagna di denaro immaginario: per accaparrarselo, le amministrazioni fanno a gara a inventare i progetti più dispendiosi e inutili. Non solo il polo scolastico di Gallarate – ristrutturare le scuole di quartiere non è abbastanza ambizioso per i criteri di finanziamento del PNRR –, ma anche l’ovovia di Trieste, fatta passare per un’opera di sviluppo verde, finché il Tar stesso, dopo una lunga serie di ricorsi dei comitati locali, non è stato obbligato a riconoscere che di ecologico non c’era proprio niente. L’assurdità dei progetti non deve però trarre in inganno: il PNRR intende ridisegnare il territorio e metterlo a valore secondo linee strategiche precise, e cioè la transizione energetica, la digitalizzazione, la promozione dell’uso dell’intelligenza artificiale, il turismo, e per farlo deve passare innanzitutto attraverso un riassestamento normativo. Sotto la maschera della resilienza e della sostenibilità, si nasconde d’altronde la pressante questione energetica e industriale di un’Europa alla disperata ricerca di una competitività perduta. Non è un caso che il PNRR sia stato presentato come l’inevitabile risposta ad un’altra emergenza che i governi hanno creato, quella della pandemia: per accelerare la trasformazione ed evitare ogni resistenza, si ricorre invariabilmente al governo attraverso l’emergenza. La guerra per le risorse, che è in corso sebbene non sia mai esplicitata in quanto tale, spiega la retorica bellica che, proprio come nel momento della quarantena, accompagna la campagna mediatica per il rilancio dell’economia. A scanso di equivoci sulla totale indistinzione civile-militare in cui siamo scivolati, il nuovo ddl sicurezza definisce le grandi opere e le infrastrutture in costruzione “di interesse strategico”, e si preoccupa di inasprire le pene proprio per chi ne ostacola, in qualunque modo, la costruzione. La guerra, del resto, è ovunque: non solo quella esterna ai confini nazionali, ma anche quella interna, contro qualunque forma di resistenza, opposizione e sottrazione all’espansione infinita di quel governo delle condotte e di costruzione delle vite che è il neoliberismo. Un paradigma di governo che consiste nel design del mondo, cioè nella progettazione minuziosa dello spazio attraverso cui ci si può muovere, che assegna ad ogni area una funzione specifica, incoraggia e rende possibili alcuni comportamenti, e impossibile l’imprevisto, e guida la percezione stessa dello spazio. Se è vero che ogni porzione del territorio viene ridisegnata dal PNRR, le aree lontane dalla metropoli e meno popolate – ma abitate da tante forme di vita –, che non hanno una funzione chiara agli occhi di chi amministra e specula, sono semplicemente considerate vuote, e quindi, in quanto tali, disponibili a uno stravolgimento radicale. È quello che sta accadendo nel crinale degli Appennini tra la Romagna e la Toscana, dove già è in corso il disboscamento per installare enormi pale eoliche, finanziate sempre dal PNRR, e piazzare un cementificio nel bel mezzo del bosco per realizzare una strada asfaltata che permetta ai tir di trasportare le pale di 70 metri ciascuna. Il loro vuoto, però, per noi è vita. Non si tratta allora tanto di difendere questo o quel bosco, ma di prendere chiaramente posizione contro il mondo unico che il PNRR disegna e incoraggia, un mondo che sentiamo ormai come definitivamente ostile. Se in città è diventato difficile occupare, scontrarsi nelle strade (per fortuna con qualche piccola eccezione!), proteggere la propria identità, sfuggire ai controlli, incontrare complici, disertare, forse un terreno indistinto, ma ancora misterioso e pieno di vita ci può aiutare. Non possiamo illudersi della purezza di alcuni luoghi, collocati sotto l’ombrello artificiale della “natura”, né dell’esistenza di boschi così fitti da nasconderci dai dispositivi che ci imprigionano in città. Abbiamo però sperimentato che in luoghi meno frequentati, e non del tutto controllati tecnologicamente, i rapporti e i modi di agire non sono così prevedibili, e dunque non ancora depotenziati. Riflettiamo allora sulla tendenza a prendere in considerazione soltanto luoghi “centrali” e a disprezzare quelli “marginali”, perché sono proprio le zone “periferiche” che il PNRR intende investire, per renderle finalmente produttive. Non stiamo peraltro parlando di abbandonare la città: la potenza che si crea nelle lotte contro questi progetti può avere un effetto di ritorno potente anche nelle metropoli dove continuiamo a incontrarci e serpeggiano desideri e si delineano esigenze sempre più forti. Non possiamo continuare a leggere le singole lotte che si oppongono ai progetti nemici, ma intendono anche disertare il mondo che si preannuncia, come lotte locali, ecologiste, parziali. Si tratta di comprenderne la reale portata per organizzare il nostro agire nei modi più variegati, intensi, e potenti che possiamo creare.